XXVII.

Vittorio Alfieri

1. La vita

L’Alfieri è senza dubbio la personalità poetica piú grande del Settecento italiano ed essa porta nell’ultima fase del secolo la voce di una poesia inquieta, tormentata, folta di motivi originalissimi e protesi verso una concezione drammatica e complessa dell’uomo che rompe i saldi limiti di natura-ragione, di civile socievolezza, di fiducia e di saggezza che avevano, a vario livello, contraddistinto la stessa poesia degli altri due maggiori scrittori del Settecento, Goldoni e Parini.

La stessa vicenda vitale dell’Alfieri e i modi con cui in quella si estrinseca la sua personalità umana sono vistosamente caratterizzati da una singolare forza di carattere, da un’intima irrequietezza eroica e pessimistica, da un’ansia di grandezza, da una forma di esperienza drammatica della vita, che corrispondono insieme ad una nuova posizione storica, fra gli sviluppi e la crisi dell’illuminismo, e l’erompere di nuove istanze e annunci preromantici: la prepotente tensione individualistica ad un’assoluta libertà e affermazione, il doloroso sentimento della forza invincibile delle passioni, la malinconia come inevitabile condizione dell’uomo grande, infelice in tempi avversi e servili e nella piú generale situazione umana, impaziente dei limiti della bassa e meschina realtà, la concezione della poesia come impulso geniale e surrogato o incentivo dell’azione.

E se la Vita, scritta negli anni tardi come ricostruzione e analisi spietata, autoironica e insieme esaltante della sua vicenda vitale e della sua missione politico-poetica, può comportare una certa accentuazione di coerenza di singoli momenti e atti, in un autoritratto intenso e poetico (e come tale da considerarsi fra i capolavori alfieriani), essa sostanzialmente ben segna i tratti fondamentali del tempestoso animo alfieriano, e ben delinea le vicende di una personalità insoddisfatta, anticonformistica, ricca di energia, di impeti, di malinconie e delusioni profonde, eccezionale per il suo appassionato impegno nell’esercizio degli affetti e nella missione poetica, concepita come ardua lotta con il tempo, con le tentazioni interne di dissipatezza e ozio, con le difficoltà stesse di un lavoro espressivo, linguistico, affrontato e attuato con tenace volontà e tutt’altro che facile e facilitato da condizioni propizie, frutto di una scelta e di una passione cresciute in mezzo ad ostacoli e a resistenze interne ed esterne.

Ben significativa in tal senso è la prima parte della biografia alfieriana fino alle decisioni della “conversione” poetica e insieme politica e morale. L’Alfieri era nato ad Asti, il 16 gennaio 1749, dal conte Antonio, erede di una famiglia di nobiltà terriera con lontane origini feudali, e da Monica Maillard de Tournon, nobile savoiarda, in un ambiente aristocratico e severo, a cui il fanciullo reagí con la sua esuberanza di affetti e con il suo carattere appassionato, di cui erano vistosi sintomi molti di quei «fatterelli» e «storiette» narrati nella Vita: l’affetto ardente per la sorella Giulia, il tentativo puerile di suicidio, lo sdegno e la caparbia resistenza a punizioni e ad accordi fra la madre e il confessore. Cosí come, «ingabbiato», nel ’58, nella Reale Accademia di Torino per volontà del tutore (il padre era morto prestissimo e la madre era passata a nuove nozze), egli reagí, con letture private e nascoste e con una sdegnata inerzia, alla educazione formalistica e arretrata di quel collegio, che era inteso a preparare burocrati e militari, sudditi fedeli di uno stato militaresco e autoritario quale era quello piemontese sotto il governo retrivo di Carlo Emanuele III.

Uscito da quella Accademia nel ’66 con il grado di portainsegna nel reggimento provinciale di Asti (grado poi rifiutato per odio antimilitaristico e insofferenza di ogni subordinazione), il giovinetto poté sfogare il suo bisogno di vita libera, di errabonda irrequietezza e di divertimento sfrenato, con una lunga serie di viaggi, prima attraverso l’Italia, poi, a due riprese (nel ’67-68 e poi nel ’70-72), per tutta l’Europa fino alla Russia, alla Svezia e alla Finlandia, e fino al Portogallo e alla Spagna.

È in questi viaggi europei (intervallati da una lunga sosta a Torino nell’inverno ’68-69, occupata da una appassionata lettura dei maggiori illuministi francesi – Montesquieu, Voltaire, Rousseau – e delle Vite di Plutarco, libro fondamentale nella sua educazione eroica e nell’ammirazione per il mondo virile dell’antichità greco-romana) che il giovane Alfieri intreccia vorticosamente esperienze di paesi, di uomini, di regimi politici, appassionate e drammatiche avventure amorose (fra cui fondamentale quella londinese per Penelope Pitt, culminata in un accanito duello con il marito di quella e in un’atroce delusione sulla lealtà della donna amata) il suo gusto di sensazioni energiche e nuove, nella passione per la velocità del viaggiare e nell’apertura dell’animo alle visioni esaltanti di paesaggi sconfinati, desertici, selvaggi, quali gli offrirono i ghiacciati mari del Nord o le aride pianure spagnole suscitando in lui una estrema tensione sentimentale e fantastica in cui piú tardi egli riconobbe la prima radice della sua poesia.

E proprio durante un soggiorno a Lisbona nel ’72 l’amico Valperga di Caluso gli lesse un’ode del Guidi che nel suo tono grandioso ed eroico (anche se in realtà poeticamente mediocre) trasportò il giovane ad un «rapimento entusiastico per l’arte della poesia» e lo convinse della sua stessa natura e vocazione poetica, e della necessità di provvedersi dei mezzi tecnici indispensabili ad esercitarla personalmente.

Cosí, pur nella sua persistente irrequietezza, egli venne cercando una maggiore stabilità, piú propizia allo studio e al lavoro letterario, prima a Torino nell’ambiente di una società di amici libertini, ma insieme letterati o dilettanti di letteratura, poi in Toscana (a Pisa, Siena, Firenze), dove l’Alfieri soggiornò sia per impossessarsi della lingua italiana-toscana, da lui fino allora mal conosciuta per la sua formazione linguistica ibrida e prevalentemente francese, sia per distaccarsi definitivamente dal Piemonte con la sua cultura piú arretrata e limitata e con il suo regime assolutistico e militaresco, per «spiemontizzarsi» e «disvassallarsi» (secondo le parole energiche e satiriche da lui coniate): realizzando cosí il suo desiderio di una vita di uomo libero e di libero scrittore (ché i nobili piemontesi dovevano chieder permesso al re per ogni viaggio e per ogni pubblicazione di propri libri!), quando fece donazione di tutti i suoi beni alla sorella Giulia in cambio di una pensione vitalizia assai inferiore al reddito di quei beni molto cospicui. Cosí egli poteva anche piú liberamente seguire l’oggetto del «degno amore» (Luisa Stolberg, contessa d’Albany, giovane moglie del vecchio Carlo Edoardo Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra) che, dopo tante avventure delusive, veniva a costituire un elemento di impiego costante dei suoi alti affetti e un aiuto alla sua concentrazione nel lavoro letterario. Per salvare la donna amata dalla gelosa violenza del vecchio marito abbrutito dall’alcool, l’Alfieri ne organizzò la fuga a Roma, dove egli si stabilí perciò per alcuni anni (dall’81 all’83) in un periodo felice per tranquillità e per un ricambio fra solitudine e frequentazione socievole assai propizio al suo lavoro poetico, che in quegli anni culminerà nella creazione del Saul.

Ma il cardinale di York, presso cui abitava la contessa d’Albany, a un certo punto comprese la vera natura del rapporto di questa con l’Alfieri, e provocò il suo allontanamento da Roma e una lunga separazione dei due amanti, durante la quale l’Alfieri riprese il suo errabondo viaggiare nell’Italia settentrionale e in Francia, e poi ancora in Italia e in Inghilterra, finché poté ricongiungersi stabilmente a lei (finalmente separata legalmente dal marito) vivendo a Parigi; dove attese alla pubblicazione definitiva delle sue tragedie presso l’editore Didot (1787-1789) e dove partecipò inizialmente alle speranze delle fasi iniziali della rivoluzione francese, ridotte poi e infine convertite in un odio antirivoluzionario e antifrancese profondo quando il tipo di libertà, che era propria della concezione alfieriana, gli apparve tradito e negato dalle nuove vicende del Terrore e di quella che a lui parve una nuova forma di tirannide demagogica per lui intollerabile. Fuggito drammaticamente, con la donna amata, da Parigi alla fine del ’92, l’Alfieri rientrò definitivamente in Italia, a Firenze, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita in una solitudine sempre piú crescente e sdegnosa, tutto preso dalla sua feroce avversione alla nuova repubblica francese e al suo dominio in Italia, assillato dal tentativo di formulare nelle sue Commedie politiche un tipo di regime istituzionale adatto alla libertà, assorbito nel suo approfondito studio dei classici, nella nuova stesura della sua Vita, nella creazione di rari e malinconici sonetti, in cui esprimeva la dolorosa prevalenza in se stesso di “ira” e “malinconia” e insieme vagheggiava alte immagini dell’uomo libero e dello scrittore fedele alla sua missione di verità, preparandosi cosí alla morte che lo colse l’8 ottobre del 1803.

2. Vita interiore: l’epistolario

La personalità alfieriana è, come abbiamo indicato parlando della sua vita, soprattutto caratterizzata dalla forza di un carattere indomabile e anticonformistico, naturalmente disposto al contrasto con convenzioni, modi di comportamento, idee medie del proprio tempo e attratto dalle grandi passioni e dalle azioni energiche ed eroiche, da persone e personaggi superiori per altezza sentimentale e spirituale piú che dalla comune e mediocre umanità. In tal senso può ben accogliersi la definizione che di lui dette il Goethe come di un «arciaristocratico», solitario e sdegnoso o aperto ad amicizie e affetti rari, e fondati sempre sul riconoscimento di qualità eccezionali delle persone amate, lontanissimo dunque dalla piú generale simpatia umana di un Goldoni o dall’apertura pariniana alle virtú schiette della vitalità piú elementare di laboriosi villani o di popolani stretti dal bisogno e dalla miseria.

Ma, entro questa scelta severa e nel disprezzo per quanti non rivelassero energia, potenti passioni e la forza della «pianta uomo» (e al di là dunque di una scelta puramente sociale), l’Alfieri rivela poi una vita sentimentale tutt’altro che rigida e monotona, che assai contrasta con certe immagini convenzionali di un volto duro e superbo, di un volontarista (il «volli, sempre volli, fortissimamente volli» che è pur cosí importante nella propria diagnosi della Vita) incapace di tenerezze e delicatezze, di sorriso, di sensibilità e fantasticheria, di alacre reazione ad aspetti anche comici e dolci della realtà e della socievolezza, di gusto della memoria che rievoca gioie e affetti passati improvvisamente destati da un oggetto che a quelli è inconfondibilmente legato. Cosí nella Vita si potranno ricordare le affettuose rievocazioni della puerizia e dei primi affetti (e magari, con moderna anticipazione, il modo con cui la memoria affettuosa di una persona scomparsa è ridestata, come dicevo, da un semplice oggetto che a quella è legato e che riapre il sentimento come dopo una lunga dimenticanza e una assenza del cuore), cosí soprattutto – in una zona fra esperienza diretta e letteratura tutt’altro che elementare e priva di un suo stile anche se piú semplice e cordiale – toni di affettuosa tenerezza, di ariosa e fresca descrizione di ambienti e paesi nella loro piú dimessa e quotidiana poesia, di confidenza cordiale e familiare, di malinconia dolce, abbandonata, tristissima e come disarmata, si fanno luce nel bellissimo epistolario alfieriano, solo recentemente studiato e capito nella sua importanza letteraria e umana.

Certe delicatissime lettere consolatorie ad amiche private del loro compagno morto, certe lettere che descrivono una giornata di studio e di lavoro poetico nella calma di una casa silenziosa e luminosa, aperta su di un paesaggio vario e rasserenante, costituiscono alte prove di prosa familiare e densa di esperienze sentimentali e ambientali, e insieme sono il documento vivo di un animo complesso, di una vita interiore capace di sfumature delicate, di vibrazioni sensibilissime, pur sempre pronte a cambiarsi in impeti sdegnosi e dolenti, in furiose tempeste di malinconia «orribile», in angosce ossessive e cupe, in brevi e intensi barlumi della fondamentale inquietudine, del sostanziale pessimismo alfieriano e del suo eroico dissenso di fronte ai valori convenzionali e alle verità della saggezza e del buon senso idillico ed edonistico.

3. Posizione storica e politica: il trattato «Della tirannide» e le ultime opere

Infatti, se è ben doveroso sottolineare preliminarmente la ricchezza e la complessità dell’animo alfieriano (altamente espresso nelle sue piú grandi tragedie) proprio anche per vincere l’impressione antipatica di un ritratto alfieriano convenzionale e scolastico, rigido, arcigno e disumano, si dovrà pur sempre energicamente avvertire come la radice piú profonda della personalità alfieriana, della sua situazione vitale, storica, politica, della sua grande poesia tragica, sia costituita da un impeto formidabile di rottura, di dissenso, di protesta, di eroica volontà e di drammatica delusione, che di tanto supera il cerchio fiducioso (natura-ragione, piacere-virtú) della civiltà illuministica specie italiana e le sue espressioni poetiche nell’opera di un Goldoni o di un Parini.

Ché nell’Alfieri, pur nella consonanza con posizioni illuministiche piú decise e rivoluzionarie (a cui lo legavano la sua giovanile esperienza europea e le letture dei maggiori illuministi francesi), vive una spinta appassionata e violenta verso l’esaltazione del sentimento e dell’azione che non accetta i limiti della ragione e della realtà, come non accetta nessuna ordinata e armonica visione provvidenziale, gerarchica e dogmatica, tesa com’è alla ricerca di una affermazione e di una libertà assoluta dell’individuo superiore, dotato di «forte sentire» e di eroico estremismo, vivo nella complessità di tutte le sue forze sentimentali e fantastiche, di fronte a cui la concezione illuministica (specie cosí come l’Alfieri la considerava) appare troppo razionalistica e angusta, poco sensibile alla situazione tragica dell’uomo nella sua potente aspirazione di libertà e di sovvertimento di ogni limite di quella.

Perciò la posizione storica dell’Alfieri è da collocare nella crisi della civiltà illuministica e nell’apertura violenta e passionale della sentimentalità romantica, in una forma di preromanticismo che esalta e supera di gran lunga le piú timide e moderate forme delle esigenze sentimentali, malinconiche ed elegiache del preromanticismo italiano, quali abbiamo rapidamente descritte a suo tempo.

Molte di quelle esigenze che si svolgono dal seno stesso dell’illuminismo e che ad esso vengono piú parzialmente reagendo, trovano nell’Alfieri una radice unitaria piú intera e una violenza dirompente, verificabile in tutti gli aspetti della sua personalità e della sua attività di scrittore.

Anzitutto ciò può verificarsi nella posizione politica alfieriana specie nella sua espressione piú esplosiva, consegnata al trattato Della tirannide (del 1777). In quel trattato – non privo certo di vigore intellettuale, ma teso soprattutto da una trascinante e persuasiva passione antitirannica e antiautoritaria spinta fino al paradosso – la forza di protesta e la volontà di eversione di ogni ordine politico fondato sull’arbitrio e il potere di un sovrano raggiunge la sua tensione estrema e ben precisa la novità sconvolgente di una simile posizione se paragonata alle varie forme di riformismo illuministico fiducioso in un graduato progresso garantito dalla intelligenza e buona volontà dell’“assolutismo illuminato”. L’Alfieri non solo comprende anche l’“assolutismo illuminato” sotto il nome generale di «tirannide», ma anzi vede in quello la forma peggiore del dispotismo, in quanto, con la sua apparenza di azione a favore del popolo, smussa e assopisce la reazione di questo. Sicché meglio allora la tirannide scoperta che può, con i suoi eccessi, suscitare la ribellione dei soggetti, secondo la logica del «tanto peggio, tanto meglio», tipica dell’estremismo alfieriano, che investe potentemente insieme alla tirannide le caste che la sorreggono e che sono cointeressate al suo mantenimento. Tali sono nel trattato alfieriano la classe nobiliare cortigiana, non da riformare (come voleva un Parini), ma da distruggere, la casta militare disposta soprattutto a mantenere l’ordine oppressivo interno (e inutile anche contro il nemico esterno perché, per l’Alfieri, «non c’è patria dove non c’è libertà»), la casta sacerdotale. E questa viene violentemente attaccata come sostegno del trono e come venale sfruttatrice del popolo, oltreché (specie nelle forme della religione cattolica) educatrice di sottomissione al tiranno, sia per i propri interessi mondani a quello legati, sia per la sua struttura gerarchica e autoritaria, per i suoi dogmi non sottoposti ad alcuna critica, per l’idea dell’infallibilità del papa. Sicché un popolo disposto a credere nell’infallibilità di un uomo in campo religioso non trovava difficoltà a credere nell’infallibilità di un uomo in campo politico.

Di fronte all’apparato e alle forze dello stato monarchico, stretto intorno al «tiranno», la visione eversiva dell’Alfieri nella Tirannide non vedeva altra speranza che nell’azione eroica di un uomo libero, di fortissima personalità, capace con il tirannicidio o con il suicidio di affermare la propria smisurata ansia di libertà e di suscitare con il suo atto generoso la rivolta popolare e l’eversione della tirannide. A questo momento eroico e supremamente individualistico l’Alfieri non sa far succedere un momento costruttivo, la creazione di un nuovo ordine repubblicano, confermando cosí come la forza della sua passione politica (e il suo stesso messaggio per i posteri) sia soprattutto una forza di protesta, di dissenso, di rivolta, piú estremistica che realistica, ma proprio in quanto estremistica dotata di una energia singolare e sorprendente nel clima piú riformistico del suo tempo, specie in Italia.

E se la sensibilità sociale dell’Alfieri appare anche nella Tirannide assai limitata da un disprezzo per l’«infima plebe», esposta alla suggestione di tirannidi demagogiche e incapace di sentire l’alto motivo della libertà, ciò non toglie che nella nostra storia quella estrema affermazione della libertà individuale opposta ad ogni convenzione conformistica, ad ogni imposizione e oppressione (non solo politica, ma spirituale e culturale), abbia avuto una grande importanza come educazione di libertà, come rafforzamento delle responsabilità individuali nella lotta contro ogni forma di autoritarismo.

Motivo alto che l’Alfieri poi – nella delusione delle sue iniziali speranze nella rivoluzione francese (per la quale scrisse un’ode su Parigi sbastigliata) e nel suo timore di una nuova forma di tirannide popolare limitatrice anch’essa della libertà individuale – cercò di far vivere ancora – con posizioni spesso confuse e con pericolose involuzioni – nei suoi tentativi (specie nelle tarde commedie politiche, L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto) di abbozzare un sistema politico di monarchia costituzionale (appunto l’antidoto di contro al prepotere o della monarchia assoluta o della oligarchia o della democrazia demagogica e oppressiva) che voleva assicurare la libertà dei singoli mediante una costituzione superiore allo stesso monarca che ne doveva garantire la continuità e il funzionamento e che molto risentiva di quella monarchia costituzionale inglese da lui conosciuta e ammirata sin dai tempi dei suoi viaggi giovanili.

E d’altra parte, nella sua dura e feroce avversione alla repubblica francese nel suo processo fra Convenzione, Direttorio e consolato napoleonico, l’Alfieri, pur mostrando i limiti della sua concezione politico-sociale, offriva indubbiamente alla storia del primo Ottocento un nuovo sentimento storicamente importante: quel forte sentimento dell’indipendenza e della nazionalità italiana che egli faceva scaturire dall’odio per i nuovi dominatori francesi, attaccati in un assalto acre e indiscriminato (specie nel Misogallo, misto di prosa e di poesie polemiche e satiriche), e dalla contrapposta necessità di una coscienza nazionale italiana, con cui egli apriva un’istanza essenziale del Risorgimento.

4. Politica e poesia: il trattato «Del principe e delle lettere»

Ma la posizione politica e storica alfieriana nel suo motivo piú intenso e peculiare (l’affermazione di una libertà individuale assoluta ed eroicamente conquistata, magari con la rinuncia suicida al vivere in servitú) si traduce in un altro nuovo tema storicamente essenziale nella nostra storia etico-letteraria: quello dello scrittore libero, del letterato “sprotetto” e nemico irriducibile di ogni collaborazione cortigiana con i potenti, e anzi dell’assoluta incompatibilità fra la sua arte, figlia e messaggera dl libertà e di verità, e ogni protezione mecenatesca, ogni contaminazione e corruzione da parte del potere autoritario.

Il letterato vagheggiato, e realizzato in se stesso, dall’Alfieri è anzitutto uomo di dissenso e di contestazione, di critica e di rottura con ogni convenzione conformistica e con ogni servile contaminazione, come il poeta insistentemente e appassionatamente spiegò nel trattato Del principe e delle lettere (1784), che amplia e precisa quanto già affiorava nella Tirannide (nella cui premessa l’autore aveva detto di servirsi della «penna» non potendo servirsi della «spada») e ancor meglio chiarisce il rapporto profondo che corre fra la concezione politica e quella letteraria dell’Alfieri, mentre insieme meglio evidenzia i dissensi alfieriani con il suo secolo «vile» e con la stessa civiltà e cultura illuministica quale essa appariva al suo sguardo eccitato ed estremisticamente preromantico.

In quel trattato, teso da una forza piú intuitiva che teorica e pieno di intuizioni fulminee e potenti persino quando possono apparire paradossali, le qualità dell’uomo libero si esaltano nella condizione e missione del letterato libero, dello scrittore-eroe, tutto impegnato nella sua missione poetica, libera da ogni interesse egoistico e da ogni concessione servile e intesa insieme ad esprimere i sentimenti piú autentici dello scrittore e a suscitare nei lettori azioni e sentimenti liberi e alti, nata da un insopprimibile «impulso naturale» e dal «forte sentire» (ciò che accomuna scrittore ed eroi dell’azione, ma capaci, i primi, di essere eroi e di creare eroi nella loro poesia), nemica mortale di ogni semplice forma ornamentale, decorativa, edonistica ed evasiva, anche se necessitante del piú severo studio e della piú tormentata ricerca della perfezione stilistica.

Cosí nelle sue scelte essenziali l’Alfieri esalterà soprattutto i liberi poeti Dante e Lucrezio (e fra gli artisti figurativi Michelangelo e fra gli scienziati Galileo, cosí diversi dagli altri artisti o scienziati a cui meno nuocerebbe la protezione mecenatesca) e giungerà, per il poeta cortigiano Virgilio e per l’episodio dell’Eneide che esalta il morto giovinetto Marcello, nepote di Augusto, a parlare di «vile sublimità», non potendo negare l’altezza poetica di quell’episodio, ma definendolo vile perché frutto di cortigiano ossequio all’imperatore.

Né certo l’Alfieri pensava solo ad esempi di poeti e di «poetiche» del passato, ché in quel trattato si rifiutava la poesia non solo come cortigiana e servile (quale poteva essere anche quella di poeti cortigiani come il Metastasio o comunque collaboratori con i principi assolutistico-illuminati), ma anche come frutto di ragione e buon gusto (tanto esaltati nelle poetiche arcadiche e illuministiche), a cui egli contrapponeva un piú deciso e libero «genio» e «impulso naturale», polemizzando poi apertamente (anche se con evidente esagerazione) contro il suo secolo vile e «tanto ragionatore e niente poetico», limitato da un freddo razionalismo, da una eleganza formalistica, da una scettica derisione delle «illusioni» eroiche e del sentimento appassionato e invincibile.

5. Natura tragica della poesia alfieriana

Queste convergenti posizioni politiche e letterarie e il loro dissenso con la civiltà illuministica (a cui pur tanto l’Alfieri doveva nelle origini della sua passione di libertà, del suo coraggio della verità, della sua critica ad ogni credenza dogmatica e imposta per autorità) ci portano a meglio intendere la genesi stessa della grande poesia alfieriana, la sua natura autenticamente tragica, e quindi la stessa scelta della tragedia come la forma piú congeniale a quella poesia nelle sue condizioni personali e storiche.

Infatti, di contro a interpretazioni che hanno visto nella tragedia una forma accettata dall’Alfieri per ragioni piú esterne (la lunga aspirazione del Settecento italiano a raggiungere il primato in quel genere considerato il piú alto e perfetto), ma contrastante con la natura lirica dello scrittore (fino a consigliare appunto una lettura lirica del teatro alfieriano), va decisamente chiarito come la scelta sempre piú approfondita del «genere» tragico e la configurazione del mondo poetico alfieriano nella struttura tragico-teatrale siano da riportare all’essenziale bisogno alfieriano di esprimere in forme di contrasto, di dialogo-urto, di azione una profonda e drammatica intuizione della vita e della situazione storica, la crisi tragica di una personalità che si ribellava ad ogni ordine costituito, ad ogni concezione provvidenziale e ottimistica (fosse essa religiosa o razionalistica), ad ogni limite della propria ansia di affermazione e di libertà, del proprio sentimento della complessità naturale dell’uomo, del proprio sforzo di trasformazione della realtà secondo i propri eroici ideali. E insieme dall’urto tragico con quei limiti la poesia alfieriana ricavava un profondo sentimento di tragica delusione, di amara, ma eroica sconfitta: limiti, si badi bene, non solo politici (la tirannide contro cui lotta l’uomo libero), ma esistenziali e naturali: i limiti stessi della natura complessa e pur misera dell’uomo, chiuso nei suoi sensi e nella sua caducità, i limiti di un ordine del mondo e di una divinità, essi stessi tirannici e ostili, non paterni e provvidenziali.

Il tragico urto fra ideale e reale, fra la volontà eroica e il limite di una realtà pessimisticamente avvertita ostile e resistente, naturalmente si costruiscono in forma tragica e in azione tragico-teatrale, naturalmente chiedono forme di contrasto e di catastrofe.

E perciò, dopo la lunga velleità settecentesca di creare tragedie in una civiltà priva di vere condizioni drammatiche, incline al «lieto fine» e all’equilibrio saggio di ideali e realtà, solo l’Alfieri poté creare vere e grandi tragedie e un vero e grande teatro tragico in forza della sua stessa natura tormentata e drammatica e della sua intuizione profonda della crisi storica e spirituale che si apriva fra la maturità della civiltà illuministica e gli oscuri fermenti, le inquietudini profonde del preromanticismo.

Sicché, lungi dal consigliare una lettura lirica del teatro alfieriano, e tanto meno una ricerca antologica di singoli passi poetici e lirici, dovremo proprio sollecitare il lettore delle tragedie alfieriane a comprendere la natura tragica e la necessaria estrinsecazione teatrale, a figurarsene il piú possibile una loro ideale rappresentazione scenica, a capire e valutare le singole parti, i singoli personaggi, le singole battute nell’organica loro funzione di parti di un tutto ideato e costruito per essere recitato e rappresentato.

E in tal modo sarà anche piú facile e naturale superare certe inveterate incomprensioni per il linguaggio tragico alfieriano giudicato duro, aspro e persino impoetico e viceversa ben comprensibile nelle sue qualità poetiche di concisione e di aspro vigore (tanto affinate e perfezionate del resto nel lungo svolgimento dell’attività tragica alfieriana) quando meglio se ne intendano le interne ragioni di rottura con una tradizione sin troppo fluida e cantabile, e, piú, di forza energica dei contrasti e degli urti drammatici, di stringente violenza nella esplosione di passioni eroiche e disperate, di espressione e contenimento della vita disordinata di sentimenti colti fin nella loro nascita piú oscura, in quella zona dell’inconscio che l’Alfieri seppe cosí potentemente, e con suggestivi anticipi moderni, scandagliare e scavare.

Né la stessa fedeltà dell’Alfieri alle classiche unità di tempo, di luogo e di azione o il classicismo del suo linguaggio saranno da considerare negativamente in sé e per sé, senza invece intenderne la loro pertinenza alla ricerca di una forma intensa ed eroicamente alta ed eletta di azioni essenziali, concentrate, incalzanti, prive di ogni dispersività e indugio.

6. Le tragedie fino al «Saul»

La piú diretta applicazione letteraria e la scelta della missione poetica furono, nell’Alfieri, piuttosto tarde, e piú scaturite da un prepotente bisogno interiore che da un’educazione coerente e continua. Infatti, se nel periodo dei viaggi giovanili egli non mancò di letture variamente importanti e di qualche dilettantesco esercizio letterario (come un sonetto piuttosto scorretto del ’71), solo nel periodo torinese fra ’73 e ’75 il giovane aristocratico, che sino allora aveva sfogato la sua naturale irrequietezza e insoddisfazione nelle avventure e nei viaggi, cercò di esprimere certi suoi umori polemici e satirici in un brillante «divertimento» scritto in francese e letto in una piccola adunanza di suoi amici letterati e libertini, l’Esquisse du jugement universel (già significativo per un acre attacco al vuoto mondo nobiliare senza virtú e senza «cuore», e per i suoi atteggiamenti violentemente anticlericali), per poi piú genialmente applicarsi ad un diario (i Giornali, scritti per una parte in francese e poi in italiano), che, nella spietata analisi di se stesso e della sua situazione di ozio e di dissipazione, lo condusse a riconoscere nella propria scontentezza, nel vuoto tedioso delle sue giornate occupate da frivoli incontri di società o da furiose cavalcate solitarie, il bisogno di un impiego degno e assoluto della propria eccezionale energia, di una vita diversamente severa, al servizio di un’alta missione, coerente al suo crescente amore per la poesia e all’impulso delle sue idee antitiranniche. Cosí, durante lo strascico penoso di un’avventura amorosa e durante una malattia dell’«odiosamata» signora cui lo legava una passione tra frivola e degradante, l’Alfieri si accinse a scrivere la sua prima tragedia, l’Antonio e Cleopatra che, faticosamente e in forme incerte tra enfatiche e languide, tentava la costruzione drammatica degli affetti «che lo divoravano» trasponendo in quella la propria situazione biografica (la liberazione da un amore indegno) e una confusa ansia di grandezza eroica e morale.

Il risultato fu assai scadente (e perciò l’Alfieri ripudiò poi quella che chiamò con disprezzo la Cleopatraccia), ma costituí l’avvio di un’esperienza poetica che già nel ’75 trovava piú sicura realizzazione nella ideazione (e poi stesura in prosa e versificazione, secondo il metodo laborioso e complesso sempre da lui successivamente seguito) di due tragedie, il Filippo e il Polinice, già contrassegnate dalla sua violenta e ardua concezione drammatica e dalla voce inconfondibile della sua poesia nel diagramma di un’azione intensa, incalzante verso la catastrofe orrenda e la sua profonda risonanza dolorosa e pessimistica, secondo il fondamentale modulo della tragedia alfieriana mossa da un impeto possente di liberazione e affermazione dei personaggi centrali (nella loro sete di assoluto e tirannico dominio o nella lotta eroica dell’uomo libero contro la tirannia politica o contro le sue stesse passioni invincibili) che nel finale ritrova anche l’ostacolo, il limite contro cui ha strettamente lottato e ne ricava un movimento grandiosamente dolente di infelicità e di pratica, ma eroica sconfitta.

Cosí avviene soprattutto nel Filippo, cupa e stringente rappresentazione della vicenda di Filippo II, geloso e sospettoso della giovane moglie Isabella e del figlio Carlo innamorato della propria matrigna e, diversamente dal padre, generoso e aperto ad idee di libertà, chiusa entro lo sfondo tetro e sinistro di una corte servile e interamente soggetta (a parte lo sventurato amico di Carlo, Perez) al potere assoluto del re e dell’inquisitore, suo stretto collaboratore. Filippo, offeso nel suo orgoglio regale e deciso ad una spietata vendetta, costruisce, con lucida e implacabile sagacia, la macchinazione che obbligherà al suicidio i due giovani innamorati, ma, proprio quando egli crederà di aver realizzato la sua vendetta e affermata la propria tormentosa passione di assoluto dominio, avvertirà dolorosamente la sua infelicità, la sua solitudine tragica, l’enormità della sua distruzione dei piú stretti vincoli familiari.

Né Eteocle, mostruoso e barbarico tiranno, animato dall’odio per il proprio fratello rivale, potrà interamente raccogliere, nell’uccisione di quello e nella propria morte in un atroce duello con lui, il frutto e il pieno appagamento del suo odio insaziabile.

In quelle due tragedie l’Alfieri aveva soprattutto puntato su personaggi mostruosi e quasi disumani e su di una specie di terribile e sanguinosa rottura da parte loro dei piú naturali vincoli familiari nella loro esasperata tensione ad un assoluto dominio, ad un’orrenda affermazione e libertà della propria individualistica mania di potenza. E la forza della poesia viveva proprio in quei personaggi crudeli e potenti piú che nei personaggi virtuosi e puri.

Ma nelle successive tragedie, Antigone, Agamennone, Oreste, la poesia alfieriana si approfondisce e arricchisce, sia nell’azione piú articolata e complessa, sia nella sua nuova capacità di dar vita – sempre nel clima livido e terribile di corti scellerate e di miti atroci dell’antichità – a personaggi alti e decisi nel loro duro contrasto, nella loro impossibilità di pacificazione, ma poeticamente vivi anche quando la direzione della loro azione e la disposizione del loro animo eroico sono segnate da altissime virtú, da un’eccezionale nobiltà spirituale e dal tormentoso dibattersi fra la nozione del giusto e la forza trascinante di feroci passioni.

Di questa nuova capacità alfieriana nella creazione di figure alte, eroiche e generose sarà prova anzitutto la grande figura di Antigone (nell’omonima e bellissima tragedia) che per dar sepoltura al fratello Eteocle, lasciato insepolto dal tiranno Creonte, e insieme per cercar di espiare col proprio sacrificio le colpe orrende dei suoi avi e genitori, sfiderà il divieto del tiranno, rifiuterà le nozze con l’innocente figlio di quello, Emone, e accetterà la morte, con la sua personalità eroica ed energica, ma insieme femminilmente delicata, pietosa e supremamente altruistica.

E sarà prova della tanto cresciuta capacità alfieriana di analisi psicologica (e persino nel regno dell’inconscio dove fermentano e ribollono sentimenti non chiariti, complessi e traumi profondi e oscuri) e di una organicità costruttiva piú complessa nell’azione e nell’incontro e reciproca sollecitazione di personaggi l’Agamennone, una delle tragedie alfieriane piú armoniche pur nella tensione che anima tutti i personaggi e nell’energia dell’azione. Azione che coincide mirabilmente con la maturazione occulta dell’atroce delitto che, per istigazione e suggestione dell’amato e perfido Egisto, sarà attuato sul generoso e turbato Agamennone, ritornato da Troia, da parte dell’infedele Clitennestra, tormentata dall’urto della passione peccaminosa, dell’attrazione invincibile per l’amante e del balenante orrore di ciò che sta per compiere. E la figura di Clitennestra riapparirà, ancor piú torturata e infelice, nella tragedia Oreste, quando, carica di rimorsi e pur incapace di scegliere decisamente tra i figli e il nuovo marito, Egisto, finirà uccisa dalla mano del figlio Oreste, vivo e poetico nella sua giovanile volontà di azione e nella precipitosa furia vendicatrice che lo condurrà quasi folle a coinvolgere nella strage Egisto e Clitennestra, con un nuovo amarissimo ripresentarsi, nel finale, di quel profondo motivo alfieriano della delusione e dell’orrore che potentemente suggella in un moto pessimistico ogni azione liberatrice e pur mai capace di appagamento e di serenità.

Piú deboli poeticamente possono invece considerarsi quelle «tragedie di libertà» (come le definí l’Alfieri) che piú strettamente si legano alla coeva composizione della Tirannide (1777) e piú direttamente puntano sul tema politico e sulla contrapposizione fra uomini liberi e tiranni.

E tale debolezza si verifica soprattutto nel confuso e incerto Timoleone e nella stessa Virginia, in cui la notissima vicenda della giovane plebea romana uccisa dal padre Virginio per non lasciarla alle voglie del tiranno Appio Claudio si svolge in una luce radiosa di fiducia eroica e si conclude con l’insurrezione popolare, ma, proprio nella direzione di un risultato positivo (appunto l’insurrezione popolare vittoriosa e provocata dal gesto supremo di Virginio), troppo gonfia di oratoria e di una certa retorica dell’eroismo romano e poco alfierianamente conclusa con una specie di singolare «lieto fine».

Perciò tanto piú congeniale e migliore sarà da considerare la Congiura dei Pazzi, in cui vibra una tensione tragica piú intensa e intera e la catastrofe – che vedrà sconfitto l’uomo libero Guglielmo dei Pazzi e il rapido passaggio del popolo alla causa del tiranno vincitore, Lorenzo il Magnifico – riporta il profondo accento pessimistico piú proprio della intuizione tragica alfieriana.

E proprio in questa tragedia potrebbe meglio osservarsi, in un’analisi del suo stesso linguaggio, come la poesia tragica alfieriana vive, anche nella sua tematica direttamente politica, solo quando questa risuona e vibra di allusioni e significati che vanno al di là dello stretto ambito della passione politica e nella situazione eroica e infelice dell’uomo libero, sottintendono come una piú profonda allusione alla sorte alta e misera dell’uomo nel pertinace, ma doloroso e infelice conflitto fra ideale e reale, fra la sua volontà di vita alta e pura e i limiti inesorabili della triste e malvagia realtà.

7. Dal «Saul» alla «Mirra»

Alla grande poesia tragica l’Alfieri ritornò con una ulteriore e definitiva maturazione della sua forza poetica e della sua espressione teatrale, tecnica ed espressiva (dopo un periodo dominato dal lavoro di revisione e perfezionamento delle prime tragedie e la costruzione di tragedie sostanzialmente minori, Rosmunda, Don Garzia, Maria Stuarda, se si escluda l’Ottavia per la finezza nobile e femminile della protagonista, chiusa in una crescente solitudine ostile), nel grande periodo che, fra l’82 e l’86, vide l’elaborazione dei due massimi capolavori alfieriani, il Saul e la Mirra.

Certo attraverso lo stesso esercizio di revisione delle prime tragedie e la costruzione delle nuove ora indicate e, di poco precedente al Saul, della Merope (scritta in gara con la tragedia omonima del Maffei, come prova della bontà del suo metodo tragico di fronte a quello attuato nel dramma arcadico del Maffei, celebrato nel Settecento come la massima realizzazione del nuovo teatro tragico italiano), l’Alfieri venne arricchendo di toni, di mezzi tecnici, di linguaggio, la propria esperienza teatrale. Sicché lo stesso Saul se ne avvantaggerà, specie nell’acquisto di maggiore capacità di dar vita a personaggi minori funzionali rispetto al personaggio centrale, ma non privi di una loro particolare vita poetica.

E tuttavia è chiaro che il Saul (ideato il 30 marzo 1782, steso in prosa dal 2 all’8 aprile, versificato dal 3 al 30 luglio) nacque da un’ispirazione qualitativamente piú profonda e come da una concentrazione nuova dell’Alfieri nel proprio grande animo e nel proprio mondo poetico, scandagliato nei suoi strati piú profondi e nella sua intuizione maturata della vita e dell’uomo.

Da questo piú interno approfondimento trae alimento la grande personalità tragica di Saul, che l’Alfieri costruí sullo stimolo di una lettura fervida ed entusiastica della Bibbia, attratto particolarmente dal grande episodio epico-drammatico dello sventurato re ebraico, abbandonato dal Dio irato per una sua disubbidienza (il rifiuto di sterminare, come volevano i sacerdoti, interpreti ufficiali della divinità, il vinto popolo e il re degli Amaleciti), geloso della giovanile prestanza di David, indotto dalla follia, cui Dio lo ha dato in preda, a uccidere i sacerdoti e a dar battaglia ai Filistei, uscendone sconfitto e costretto al suicidio.

Ma quella grandiosa vicenda fu rivissuta dall’Alfieri in una prospettiva originalissima e diversa da quella del testo biblico in cui la giustizia di un Dio, padrone assoluto e punitore implacabile di ogni disubbidienza ai suoi ordini, era al di sopra di ogni possibile discussione e la follia e la sventura di Saul erano giuste conseguenze del suo atto di ribellione. Nella tragedia alfieriana invece la grandiosa e tormentata personalità saulliana raccoglie in sé non solo il carattere tirannico della volontà di potenza che lo rende geloso di David e diffidente di tutti, ma anche il carattere di infelicità di una vittima del Dio terribile e tirannico, da cui Saul si sente oppresso e colpito per un atto che egli non può non riconoscere generoso e magnanimo, sicché egli oscuramente reagisce a quella «tremenda mano» che lo tormenta, a quella «terribil ira» di un «inesorabil Dio» a cui si rivolgerà sconfitto, ma intimamente ribelle, nell’atto stesso del suo suicidio.

In tal modo al centro di questo grande personaggio, ricco di una estrema complessità di toni e sentimenti (gelosia, diffidenza, furia e crudeltà tirannica, ma anche malinconico e cupo sentimento di solitudine e desiderio di amore e di pacificazione con i suoi, orgoglio della sua dignità regale e coscienza amara della logica spietata del potere, volontà di spezzare i limiti che lo assediano e dolente senso della sua infelicità e debolezza di vecchio, nostalgia dell’età giovanile felice e forte), si deve ben cogliere il motivo piú profondo della sua tragica situazione e delle sue oscillazioni, dello scoppio della sua ira e del desolato ripiegamento in momenti di prostrazione e di presentimento della propria inevitabile sconfitta. E tale motivo, ripeto, è l’espressione poetica della tragica intuizione vitale del poeta, del suo modulo eroico-pessimistico, concretata in un personaggio supremamente inquieto, tormentato, oscillante fra impeti, sdegni eroici, selvaggi sobbalzi di furia crudele e desideri vani di quiete e di affetti consolatori, concreto simbolo dell’uomo superiore, teso alla propria affermazione e assoluta libertà, tiranno e vittima di una realtà che lo limita e contro cui tenacemente e vanamente lotta, di un ordine generale delle cose, di una divinità non provvidenziale e paterna, ma ostile, arbitraria e tirannica.

Saul, tiranno e vittima (vittima della sua stessa tirannide e della tirannide celeste), anima, con la sua gigantesca personalità e con la sua azione convulsa e irrequieta, tutta la tragedia, scuote e tormenta il mondo dei personaggi minori, che sarebbero di per sé disposti ad affetti piú consueti e alla fiducia in Dio, e che vengono come travolti dall’azione di Saul, mentre, per contrasto, ne accentuano la solitaria grandezza anche quando cercano di comprenderlo, di assecondarlo o consigliarlo, o con la devozione filiale di Gionata, o con la delicatissima pietà femminile di Micol, o con la fedeltà di Abner tutto preso in una sua concezione mondana di guerriero e nella sua avversione per i sacerdoti e per David, anch’egli generoso verso Saul, ma persuaso della giustizia divina.

Come questa grande tragedia si presenta singolarmente complessa e ricca di motivi e personaggi, cosí essa si caratterizza per un linguaggio piú vario, ora fortemente immaginoso, ora sommesso e delicato (come nelle parlate di Micol), e si svolge e articola – rispetto alle precedenti tragedie – in una linea particolarmente mossa, con rallentamenti e progressioni piú sommesse e pausate, con impeti crescenti di estrema potenza, con oscillazioni profonde, con intrecci di toni tutti raccordati con la vita drammatica del personaggio centrale. E l’incalzare dell’azione verso la catastrofe è assecondata da una originalissima attenzione al tempo, all’ora che passa e inesorabilmente segna l’avanzare della tragedia verso il suo esito, fra i colori dell’alba sorgente – allusione di speranze e di fiducia, specie nei dialoghi dei personaggi minori nel primo atto e nel primo apparire di Saul – e il trascolorare della luce della giornata verso la notte fosca, in cui i Filistei assalgono di sorpresa il campo ebraico immerso nel sonno, sconfiggono e uccidono l’esercito avversario e gli stessi figli di Saul (mentre David si allontana secondo l’ordine divino e Micol è trascinata via in salvo da Abner) e si apre il grandioso, rapidissimo, travolgente finale. Allora Saul si ritrova solo, carico di rimorsi, di colpe (come l’inutile uccisione di Achimelech e degli altri sacerdoti momentaneamente creduti, nel suo spirito eccitato, unica causa delle sue sventure), privo di affetti, dolorosamente consapevole della sua pratica sconfitta, e insieme titanicamente proteso, mentre si uccide, a contestare la «terribil ira» dell’«inesorabil Dio» e a riaffermare – di fronte ai Filistei che irrompono vittoriosi sulla scena – la sua dignità di re e di uomo eroico, la tragica grandezza degli eroi alfieriani, vinti, ma non piegati, capaci, nell’estrema sconfitta e nella massima delusione, di un ultimo impavido ergersi nella morte, non subita, ma voluta come liberazione e prova definitiva della loro eroica libertà.

Nel Saul l’Alfieri credette di aver concluso, con un risultato altissimo, la sua poesia tragica e – preso dalle vicende ansiose del suo nuovo viaggiare irrequieto nella lontananza della donna amata – svolse la sua ricchezza sentimentale nel lungo esercizio delle Rime, su cui piú tardi torneremo. Ma ad esse occorre qui accennare come ad un esercizio poetico importante per preparare, con una tensione ricca di toni dolorosi e di movimenti di alta finezza, una ripresa dell’attività tragica, piú incerta nell’Adige e nella Sofonisba (troppo diluite nell’esaltazione di eroi altruistici ed elegiaci) e invece nuovamente altissima nella Mirra, ideata in Alsazia l’11 ottobre 1784, stesa il 24 e il 28 dicembre dello stesso anno, versificata fra il 7 agosto e l’11 settembre 1786, dopo un lungo intervallo di meditazione.

Nella Mirra, capolavoro supremo dell’Alfieri e del Settecento, tutta la vasta gamma di sentimenti e di toni (fra espansioni di tenerezza, scatti elegiaci e patetici, e impeti profondi di energia e di sdegno, con un singolare fascino per la sorte misera e alta degli uomini, per la loro nobiltà spirituale e la loro sostanziale infelicità) che era affiorata già nel lungo esercizio lirico delle Rime, viene improvvisamente raccolta e utilizzata – insieme alle inerenti conquiste di un linguaggio piú ricco di sfumature e di gradazioni sottili – in funzione di un nuovo potente nucleo tragico in cui il grande poeta venne a condensare come il succo piú profondo e intimo della sua intuizione tragica della situazione umana, alimentandone un personaggio delicatissimo e pur sempre eroico, costruito con estrema sapienza di gradazioni e quasi accarezzato da una luce profonda di simpatia, di pietà, di ammirazione pudica e lontanissima da ogni eccesso di enfasi oratoria (pericoli non certo mancanti in molte tragedie alfieriane meno riuscite, o in parti di altre piú grandi, e qui del tutto eliminati). Lo stimolo per la Mirra venne all’Alfieri dalla lettura di un celebre episodio delle Metamorfosi di Ovidio, che narrava, con toni ben diversamente compiaciuti, la vicenda della giovane figlia del re Ciniro, accesa da incestuosa passione per il padre e trasformata, dopo la nascita di Adone, frutto di quel peccaminoso amore, nell’omonima pianta orientale.

L’Alfieri raccolse il motivo centrale di quella passione nefanda (provocata da una vendetta di Venere contro la madre di Mirra) e intuí «in un subitaneo lampo» (come egli narrò poi) lo sviluppo diversissimo e originalissimo che ne poteva trarre la sua fantasia tragica, concretandolo nell’azione tenace e disperata con cui la protagonista avrebbe cercato di contenere e non rivelare la sua passione divorante, invincibile, fino alla punizione di se stessa con il suicidio, quando la natura e il nome della passione le vengono come strappati dallo stringente interrogatorio dello stesso padre.

Tale azione e tale disperata lotta interiore da parte di una fanciulla pura e innocente, invasa da una passione scellerata e invincibile, si presenta chiaramente come l’estremo svolgimento e approfondimento della intuizione tragica alfieriana e del suo profondo e pur sempre eroico pessimismo. Ché il dramma degli uomini, della loro lotta eroica e del loro pratico scacco finale, il motivo alfieriano della lotta dell’ideale contro il limite della realtà, vengono qui portati al loro esempio piú sconvolgente e arditamente moderno, se proprio in un essere innocente e virtuoso, nell’età delle piú pure speranze e illusioni, può nascere una passione cosí orrenda come l’amore incestuoso e se di questa passione quella creatura potrà liberarsi solo con il suicidio, ancora in quel supremo momento rimpiangendo, con la sua acutissima sensibilità morale, la propria empietà realizzata solo nella forzata rivelazione di quella passione.

Il pessimismo alfieriano tocca qui le sue note piú profonde, investe la natura umana, esposta, anche nelle sue condizioni piú innocenti e virginee, alla contaminazione di passioni orrende, in un ordine delle cose che l’Alfieri non poteva certo immaginarsi che ostile e spietato se esso può permettere o addirittura (secondo il mito della vendetta di Venere ripreso anche dall’Alfieri nella sua tragedia) volere simili estremi esempi dell’umana infelicità.

Dramma intimo e psicologico dunque è quello della Mirra (in tal senso l’Alfieri vi acuí il suo sguardo profondo sin nelle zone dell’inconscio), ma insieme è dramma di profondo significato esistenziale, come si poteva dire del Saul, e piú si può dire di questa tragedia, in cui il personaggio centrale impiega tutta la sua energia non per un’affermazione di potenza (l’aspetto tirannico di Saul), ma solo per difendere la sua virtú dalla passione da cui è stata contaminata ad opera di una natura e di un destino implacabili e ostili.

Questa grande tragedia vive soprattutto nello sviluppo del personaggio centrale, rispetto al quale gli altri personaggi (il padre Ciniro, la madre Cecri, il fidanzato Pereo, la nutrice Euriclea) pur possedendo una loro individuazione essenziale, hanno la loro vera funzione poetica e drammatica nel rapporto con Mirra e con il suo dramma, per loro incomprensibile e che li turba e provoca le loro reazioni di pietà, di affetto, di dolore e speranza, mentre il loro affannarsi intorno a Mirra con i loro sentimenti piú normali e tesi alla pace domestica esaspera il tormento della protagonista, rileva la sua desolata solitudine, la sua impossibilità di confessione, di abbandono, di sfogo, il suo ritegno sempre piú difficile e disperatamente tenace.

Né d’altra parte può dirsi, come a volte si è detto, che la situazione di Mirra sia troppo monotona e quasi statica, ché la giovane infelice non manca mai di una disperata volitività e di una linea di azione entro il limite già inizialmente chiaro dell’impossibiltà di ogni soluzione felice. Mirra sa che la sua passione è invincibile e che non potrà vincerla se non con la morte. E tuttavia per i primi tre atti essa agisce per ottenere la morte in una forma piú consona alla sua delicata natura femminile e giovanile di quanto non sarebbe la risoluzione feroce del suicidio. Cosí essa insiste (contro le perplessità e i dubbi atroci dei familiari e dello stesso fidanzato, e contro la propria resistenza, i propri momenti di abbattimento e l’attrazione della sua passione) per l’attuazione delle nozze, che essa aborre, ma in cui vede la sua partenza dalla casa paterna, e una morte lontana per il dolore del distacco dal padre.

Ma tale azione è frustrata quando nella cerimonia delle nozze la sua passione la sopraffà in un vaneggiamento forsennato che elimina definitivamente la possibilità delle nozze e spinge l’infelice Pereo ad uccidersi, ritenendosi causa della disperazione di Mirra.

Questa scena (la scena seconda dell’atto quarto) è altissima nella tensione poetico-teatrale creata dall’Alfieri con l’impiego di cori che, con il loro salmodiare monotono e il loro linguaggio rituale e convenzionale, con la loro esaltazione delle gioie coniugali e la loro deprecazione delle furie della discordia, creano come una ossessiva cupola sonora sotto cui Mirra si turba, vibra sollecitata dalle stesse immagini evocate dai cori e dalle domande ansiose dei personaggi familiari che la circondano. Finché il suo tormento diventa insostenibile e la fanciulla, con oscure, sconnesse parole, esprime la sua invincibile repulsione per le nozze con Pereo. Dopo questa scena (quasi una prima catastrofe di questa tragedia inesorabile e spietata) Mirra non può che ripiegare sulla richiesta della morte al padre e alla madre, e quando, nell’ultimo atto, anche questa assurda possibilità sarà eliminata – provocando l’orrore e la disperazione dei genitori, di fronte a quella richiesta –, essa lotterà solo per conservare almeno il suo orribile segreto. Ma anche questa disperata difesa crolla nel dialogo supremo ed estenuante con il padre che la condurrà, quasi inconsapevolmente, a rivelare la natura e l’oggetto del suo amore. E la fanciulla, che a quel punto si è trafitta col pugnale del padre, cercherà ancora inutilmente di celare morente il suo peccato alla madre. Svanita anche quest’ultima speranza, mentre i genitori inorriditi la abbandonano, chiusi in un disperato abbraccio che ancor piú rivela la suprema esclusione di Mirra dal mondo degli affetti familiari, la sventurata eroina muore ancora rimpiangendo una morte innocente (se ottenuta prima della rivelazione del suo peccato) e cosí, nella sua squallida sconfitta, nel riconoscimento della propria empietà, ancora riverbera la luce di gentilezza e di virtú a cui tutta la sua azione si era ispirata.

La linea della tragedia si presenta cosa saldissima e svolta in fasi ben individuate, assicurata a nodi tragici potenti, sotto la trama finissima e mirabilmente graduata delle scene e dei dialoghi, in un linguaggio perfetto, fuso e capace di assecondare gli impeti drammatici piú laceranti come le piú sottili sfumature psicologiche, ben dimostrando come questa tragedia sia l’esito piú profondo e armonico del lungo esercizio tragico alfieriano.

8. L’ultimo Alfieri e le «Rime»

La grande poesia tragica alfieriana si conclude nella Mirra, ché ormai poeticamente assai deboli appariranno le due tragedie politiche posteriori, Bruto I e Bruto II, accese dalla consonanza alfieriana con il momento prerivoluzionario francese, e molto deboli sono un tardo rifacimento dell’Alceste di Euripide e uno strano tentativo di «tramelogedia» (specie di compromesso fra tragedia e melodramma) attuato con l’Abele.

Non perciò l’Alfieri cessò di applicarsi all’attività letteraria e all’espressione delle sue idee politiche e morali, sia con il ricordato Misogallo, sia con le commedie politiche, già ricordate, sia con commedie morali e satiriche (Il divorzio e la Finestrina), non prive di un acre riso sarcastico e di notevole abilità teatrale, sia con le Satire, dirette a colpire ferocemente costumi e atteggiamenti contemporanei (fossero essi gli usi della decaduta Italia, il cicisbeismo, la frivola educazione nobiliare, o fossero atteggiamenti umanitari e razionalistici dell’illuminismo, sentiti come troppo lontani dall’alfieriano sentimento eroico ed energico) sia piú felicemente, con la lavoratissima Vita (scritta una prima volta intorno al 1790 e poi riscritta intorno al 1799-1800), capolavoro della sua prosa matura analitica e sintetica, capace di dosare ed equilibrare fra loro toni e ritmi appassionati e drammatici con toni e ritmi piú distesi, ironici e autoironici, specie nelle bellissime parti che narrano la puerizia, l’adolescenza e la gioventú del poeta.

Né potranno certo dimenticarsi anche per i loro piú tardi esiti poetici, luminosi nell’incupirsi solitario e nella feroce e quasi maniaca avversione antifrancese e antirivoluzionaria, quelle Rime che nel loro insieme (diviso in due parti) costituiscono certo un cospicuo aspetto della poesia alfieriana.

Concepite come una specie di diario poetico (specie a cominciare dagli anni della lontananza dalla donna amata, dopo la partenza da Roma nell’83), le Rime (per lo piú sonetti) contribuiscono anzitutto a un nuovo rilievo della potente originalità dell’Alfieri, che riprendendo il modello petrarchesco, lo interpreta e rinnova, all’opposto della direzione «illegiadrita» del petrarchismo arcadico e settecentesco, forzandone invece i caratteri di conflitto interiore e caricandolo di una tensione molto lontana dalla misura e dalla dolcezza del Canzoniere. Ché anzi la lirica alfieriana, come sfugge paesaggi e sfondi vaghi e rasserenanti e cerca paesaggi rupestri e selvaggi congeniali al suo animo drammatico ed eroico-pessimistico, cosí rifiuta un tipo di poesia che «disacerba il duolo», un linguaggio fuso e melodico, cui si contrappongono la sua concezione della poesia energica e intensificatrice del sentimento, un linguaggio aspro e irto, un ritmo pieno di spezzature e di clausole perentorie. Né la stessa tematica delle rime alfieriane è solo amorosa (anche se in tante delle rime è centrale l’amore e la disperazione per la lontananza della donna amata) e anche quando essa è tale, l’amore agisce soprattutto come incentivo all’espressione di tutta una vasta gamma di sentimenti (ira, malinconia, voluttà malinconica e tormento di un «ingegnoso nemico di se stesso», sdegno eroico per il mondo e il secolo «vile», pietà per la sorte misera degli uomini, ammirazione per personaggi sublimi ed eroici) che si raccordano al fondo drammatico e all’intuizione eroica-pessimistica della vita, propria dell’Alfieri.

In tal senso le Rime offrono un materiale ricchissimo di sentimenti e toni e, se la realizzazione poetica di questi è piú spesso frammentaria e difficile, è dal generale attrito di una cosí densa e scabra materia sentimentale e dal difficile, arduo sforzo di farne poesia, che scattano i rari, ma altissimi capolavori delle Rime.

Ed essi (si pensi soprattutto al sonetto scritto alla Certosa di Grenoble, a quello scritto a Marina di Pisa, a quello che esalta la «dolce tristezza» della solitudine di una selva e del suo «tacito orrore») riescono ad ottenere una singolare misura ed equilibrio, conquistati con una suprema tensione dell’animo e con una possente intensificazione di tutta la loro costruzione.

E, come prima ho già detto, anche nello sgorgo piú raro e meno energico delle Rime della seconda parte, negli ultimi anni fiorentini, queste portano la maggiore luce di poesia ad un tramonto cosí aspro, irato, esacerbato del poeta, che in alcuni di quegli ultimi sonetti sa trovare una piú profonda espressione del proprio animo preso fra «ira e malinconia», assorto in una meditazione dolente e malinconica dei propri problemi e dei propri ideali, in un alto vagheggiamento di immagini di se stesso fatto tutt’uno con il proprio ideale dell’uomo libero, in instancabile lotta con la viltà e la tirannia. Come avviene soprattutto nel monumentale sonetto, ideale autoritratto e ritratto dell’uomo libero

(Uom, di sensi, e di cor, libero nato,

fa di sé tosto indubitabil mostra.

Or co’ vizi e i tiranni ardito ei giostra,

ignudo il volto, e tutto il resto armato:

or, pregno in suo tacer d’alto dettato,

sdegnosamente impavido s’inchiostra;

l’altrui viltà la di lui guancia innostra;

né visto è mai dei dominanti a lato.

Cede ei talor, ma ai tempi rei non serve;

abborrito e temuto da chi regna

non men che dalle schiave alme proterve.

Conscio a sé di se stesso, uom tal non degna

l’ira esalar che pura in cor gli ferve;

ma il sol suo aspetto a non servire insegna).

Questo sonetto ben può essere considerato come una sorta di nitido, epigrafico riepilogo di tutta una vita, nella coscienza del significato del proprio perenne messaggio, nella personificazione di quella passione di libertà che anima tutta l’opera alfieriana e dà un valore eccezionale alla presenza dell’Alfieri nella nostra storia letteraria e civile, alla sua influenza sui nuovi poeti del primo Ottocento come Foscolo e Leopardi.

Ché se, concludendo, non vanno certo taciuti i pericoli della posizione di libertà individualistica, specie nella sua configurazione finale in contrapposizione alla grande rivoluzione francese e all’eredità del grande illuminismo, non si potrà tanto meno negare la eccezionale forza stimolante degli ideali alfieriani anche in un contesto diversissimo di volontà democratica ed egualitaria, e l’altezza poetica in cui essi si sono tradotti.